-CLAXON-

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microwaves, la rubrica di musica

sabato 30 maggio 2009

Claxon Family

In fondo trovate i link!!!

-Claxon Family-

La fine della scuola è la fine di molto altro che non passa per le bocche dei diciannovenni che si accingono a superare le ultime paludi prima di passare oltre a più dolci (?) acque: anche per colpa dell'esame e della conseguente diluizione dell'addio alla scuola e ai compagni, si frammenta il momento dell'abbandono e si perde un momento supremo di leaver's blues (anche se a dir la verità la maggioranza di noi in realtà non ne può più di questo luogo e specialmente dei suoi compagni).

Ma visto che noi di Claxon siamo gente di buoni sentimenti e ci vogliamo bene fra noi, mi è piaciuta l'idea di dedicare a ognuno di noi una canzone, su una base assolutamente impersonale come il nome di ciascuno, di battesimo o di famiglia. L'onore del varo al nostro Vincenzone Maccarrone, che da quando è bambino si sente urlare dietro una geniale canzone del cantautore Alberto Fortis, Milano e Vincenzo: questa canzone, nata come sfogo verso un individuato discografico, frutto della rabbia per le meccaniche malate dell'industria dei dischi, contiene versi che tuttavia è impossibile non sottoscrivere riguardo il nostro compagno di redazione (Vincenzo io ti ammazzero'/sei troppo stupido per vivere [...] Vincenzo io ti sparero'
sei troppo ladro per capire [...]) Da notare, anche se francamente orrendo, anche il video della canzone disegnato da Andrea Pazienza. Si passa a una canzone d'amore, dedicata alla speaker canadese più amata dagli italiani, ovvero
Emily Clancy: gli Art Brut canta di tal Emily Kane, fidanzatina dei quindicianni del protagonista, che la ricorda con affetto, nonostante “we didn't understand/ How to do much more than just hold hands”. E' propria una old flame, che al cospetto del turbinio di ragazze successive, fa rimpiangere “the clumsy way we used to kiss”. I suoi amici pensano che sia pazzo, lui, ma affida, da cantor cortese del Duemila, alla sua canzone la speranza di ritrovarla: i want schoolkids on buses singin your name. (Dedica alternativa: Last of the English Roses, Pete Doherty)

Avete sicuramente visto quella ragazza in vestiti colorati e dai grandissimi occhi verdi che zompetta con passo spedito nei corridoi. Bene, tutta il miele che sembra sgorgare dallo sguardo di Maddalena Pasini si trasforma in inchiostro color sangue, quando nell'Idiota del Mese o nella Rubrica Amnesty fa pagare ciò che è dovuto a chi è incorso nelle sue ire. Il songwriter Justin Vernon, in arte Bon Iver, è dovuto scappare tre mesi in una baita del Wisconsin per e prova a riappacificarsi con Sweet, sweet Magdalene.

Sfiliamo dalla libreria degli album per le grandi occasioni una canzone di new wave fascia dark per un ragazza anagraficamente ancora piccola, che potete trovare ciondolare depressa agli intervalli con una carota in mano, una mela in tasca o un sedano in bocca: un ritratto psichedelico a tinte rosso scure di Stella, che fatica a reggersi dopo qualche storia di droghe e dopo essere stata la catatonic sex toy love-joy driver dell'io narrante, Stella was a driver and she was always down, ma gli Interpol ti amano ancora, allegra! (Dedica alternativa: Was?, Verdena).

Segnali di Laura dovunque: i Baustelle cercano “un cuore sul pianeta Terra per sfidare i sogni, per sfidare Dio”. Laura Agnusdei invece è più probabile che cerchi un gruppo da recensire per Local Support o da portare in radio. Francesco Pindaro Bianconi continua a paragonarla a una “grazia estranea agli umani, alle fughe di Bach, alla chimica [...] gioia che afferri un piccolo seno/ bambola di Modigliani”: la Lau scapperà divertita, la canzone si chiama “L”.

Gli Ataris sono un gruppo pop punk relativamente famoso, nel genere (Blink 182 e compagnia) e il loro sotenuto e scatenato minuto e 48 di Clara non è certo quello di Clara Larcher, ovvero l'Anna Moroni de noantri, che diversamente dalla protagonista della canzone non si troverebbe sull'orlo di un ponte, immersa in dolorose immagini del passato, di errori, di relazioni e figli: certo, anche il cantante che finisce col dire oh beh, allora se è questo che vuoi ti spingo io di sotto può non aiutare.

Avremmo potuto essere banali e puntare sui Beatles (Anna, Go to Him), ma ci pare più azzeccata la storia del barbuto e interessante duo americano Two Gallants, epigoni di Johnny Cash e Neil Young: Anna's Sweater, la felpa di Anna, intravista per un attimo sulla strada 22 dà luogo a riflessioni molto più ampie in arpeggi acustici. Se si parla di vestiti coloratissimi e appariscenti, avrete già capito che parliamo di Anna Merlini, l'anna (minuscola) a cui alcuni di voi hanno confidato le proprie pene d'amore in questi anni, la fata dei fiori con la passione per la fotografia e la buona musica e, non dimentichiamolo, la Regina della Movida Minghettiana del 2008-09, in quanto eletta al Comitato Feste!
Quest'anno Claxon ha guadagnato un giovane intraprendente. Anzi, esuberante, dalla passione
infinita, un po' come i suoi articoli. Sapete che parlo di Francesco Coral Soares, detto Sorry, sul cui nomignolo a dir poco abbondano le canzoni: evitando Madonna, propongo una doppia dedica (proporzionata agli articoli, no?) dei R.E.M.: South Central Rain (I'm Sorry) e la più recente The Apologist.

Purtroppo il nome di alcuni non ha rappresentanti musicali né numerosi né famosi: la Colombo dei Baustelle è un inno alla decadenza dell'Occidente, e non so quanto il nostro cronista in senso stretto, l'uomo-Obama, il vecchio gentiluomo del Sud, colui che detiene il maggior numero di prime pagine di Claxon consecutive e non, Marco Colombo possa esserne soddisfatto, ma se ne accontenti! Altrettanto si può dire per l'altro Marco, anzi, Marco L'Altro, ovvero lo Zoomer più preciso e fedele dell'anno, colui che ha raccolto l'eredità di Lorenzo Piccinini sia come, appunto, curatore di Zooms, sia come sex symbol del Minghetti, il veterocomunista quasi più vetero che comunista: parliamo di Marco Antonioli, al quale dedichiamo con affetto Antonio's Song, un soul-jazz stracciamutande -pardon, delicato- a opera del songwriter americano Michael Franks. Un altro grande amico di Claxon, Lorenzo Pedretti, dovrà perdonarci per la scelta infelicissima, ma il suo soprannome con cui firma anche gli articoli, gli è costato questa trista associazione di idee: Notti Magiche, colonna sonora di Italia '90, cantata da Bennato e Gianna Nannini, é la sua canzone: non è colpa nostra se il suo soprannome è Pizzul. Una pensiero alla presenza costante ma silenziosa di Silvia Cavedoni, le cui ormai classiche P@gine Leggere saranno celebrate dai Weezer, con Simple Pages. Per Lorenzo Tabarrini, il rappresentante d'Istituto più festeggiato dell'anno, cade a fagiolo una canzone di non-compleanno dei NOFX :happy fucking birthday, you're not special, you're not special, you're gettin older and not much better.

Infine per ultimo, nell'angolo dell'impaginatore, sta l'autore, il musicografo più prolisso e contorto degli ultmi anni, che si sceglie un classicone di Rita Pavone: Pippo non lo sa/ ma quando passa, ride tutta la città/ e le sartine/ dalle vetrine/ gli fan mille mossettine/ Ma lui con grande serietà/ saluta tutti, fa un inchino e se ne va.


Filippo Batisti



http://www.youtube.com/watch?v=_y8mP71ZILQ Vincenzo io t'ammazzerò

http://www.thankscaptainobvious.net/2008/12/bon-iver-blood-bank-ep-2009.html
Sweet sweet Magdalene

http://www.youtube.com/watch?v=YtigpB7q2LI Stella was a driver and she was always down

http://www.youtube.com/watch?v=JIhr9B1TYFE Antonio's Song

http://www.youtube.com/watch?v=qRnaS2RsonI Pippo non lo sa

http://www.youtube.com/watch?v=iDNsJnabv-E Clara

http://www.youtube.com/watch?v=uvA0UBesfbY Emily Kane
http://www.youtube.com/watch?v=qjIO-AJlFoU The Last of the English Roses

http://www.youtube.com/watch?v=B-J5LepnXs4 Anna's Sweater

http://www.youtube.com/watch?v=ZD2R7G3z6WU South Central Rain (I'm Sorry)
http://www.youtube.com/watch?v=SqUDV_Klg30 The Apologist

http://www.youtube.com/watch?v=HifUz7SUBcA Colombo
http://www.youtube.com/watch?v=aG_-NB6rkOE Notti magiche

http://www.youtube.com/watch?v=eR0YNYLmves Simple Pages

http://www.youtube.com/watch?v=gCzEMoz2c_s Happy birthday

giovedì 19 marzo 2009

I want to kill you with an axe: questo è vero amore!

Alla fine tra fare l'amore e fare la guerra non v'è questa grossa differenza.
Questa particolare lettura dello slogan sessantottino prende spunto addirittura dall'antichità classica: dell'amore s'è sempre scritto, inteso come relazione fra due persone che hanno una relazione nel più stretto senso, ovvero che sono legate da una pratica dialettica costante spesso fatta di contrasti che, come insegna Anassimandro, dallo scontro fra opposti conducono a un'armonia superiore. L'amore, come ogni altro atto creativo, è scontro, anzi, lo scontro più dolce: in questo senso a partire dai lirici greci in molti l'hanno descritto utilizzando metafore di carattere militare e guerresco. Tralasciando Saffo che chiamava in aiuto Afrodite come summachos, è nel mondo romano che questa visione poetica prende piede, nella maggior misura con gli elegiaci, Tibullo e Properzio; Ovidio in maniera diversa.
Nei primi due la dichiarazione di far parte della guerra amorosa va letta biunivocamente insieme al non voler/poter essere parte della guerra vera e propria di Roma. Sappiamo infatti che l'elegia ha come manifesto una precisa scelta di vita che rinnega la guerra e il servizio militare, la carriera politica e il lavoro per invece dedicarsi interamente all'amore o a tutt’altri tipi di vita. Tibullo, poeta alla ricerca di un ideale mondo agreste, associa alla sua scelta di diversità rispetto ai canoni della società un ritiro in compagnia della donna amata in campagna, dove riuscire a vivere in pace e con una condotta semplice e intrisa d'affetto. Invece Properzio più che una antinomia realizza un parallelismo fra la militia reale e la militia amoris perché è bene consapevole che la seconda comporta prove e sofferenze non meno dolorose e dure della prima. Ovidio percorre una strada ancora diversa; nel carme 1,9 degli Amores compie un dettagliato parallelismo fra chi ama e chi è soldato senza antitesi fra i valori elegiaci e quelli chiamiamoli militari, anzi: sia i duces che le bellae puellae richiedono all'uomo al proprio servizio prestanza fisica, che servirà per compiere lunghe ed estenuanti marce in spedizioni militari o per seguire la donna amata ovunque essa andrà, per fare il turno di guardia davanti alla tenda del generale o per aspettare ore davanti alla porta inevitabilmente chiusa della casa dell'amata (il più famoso topos elegiaco, il paraklausithyron), assediata al pari di una grande città. Esattamente come si sorprendono con una sortita notturna i nemici, l'amans allo stesso modo -deliziosa effetto ironico di Ovidio nel paragone- aspetta il sonno dei mariti per entrare in azione. La chiusura è una battuta che sfida gli animi intraprendenti a mettersi alla prova amando.
Il concetto è abbastanza chiaro.
Salto temporale e qualitativo, passiamo alla canzone rock degli ultimi due secoli: World Leader Pretend è una canzone dei R.E.M. del 1989 in cui si citano mortai, muri, barricate e armi per esprimere sensazioni personali, direi psichiche, più che strettamente emotive. L’inizio è sintomatico: I sit at my table and wage war on myself. Questa volta non si tratta esplicitamente d’amore (anche se potrebbe essere), ma i termini militari rappresentano un modo di porsi e di raffigurare per se stessi i rapporti di sé verso il mondo. Questo, più che una descrizione di una relazione in atto, è una riflessione intermedia, dopo gli sconvolgimenti accaduti, che legge bene all’interno della psiche umana. Oppure più semplicemente è come dice il suo stesso autore: “that was me copying Leonard Cohen, using something like military terms to get across a very simple human emotion". Ecco.
Leonard Cohen, gigantesco cantautore e poeta canadese attivo dagli anni Sessanta fino ad ora, ha usato più volte armi e cavalieri e Fidel Castro (sic) per raccontare l’amore. C’è da dire che spesso i complessi metaforici di Cohen si prestano a doppie interpretazioni, come inella celebre First we take Manhattan -che si presta ad almeno tre letture diverse- o in There is a War: gli inviti a partecipare alla guerra possono essere rivolti alla propria amante, ma qualcuno ci legge –senza motivo pensiamo noi– una specie di canzone di protesta sessantottina. I rise up from her arms, she says "I guess you call this love"; I call it service non lascino spazio a dubbi. Interessantissimo, questo service: servizio nel senso di servizio militare, ovvero di un impegno che si è assunto e che va rispettato secondo dei doveri e obblighi a cui bisogna adempiere. Stiamo parlando di un amore, ricordo.
Il protagonista con aria di sfida a partecipare alla guerra (don’t be a tourist) che la partner ha, a detta di Cohen, iniziato, ma da cui si dissocia, infatti there’s a war between the ones who say there’s a war and the ones who say there isn’t, addirittura lui neanche sapeva ci fosse una guerra in corso! Mr. Cohen, antimilitarista, anche in The Captain lancia un paio di bellissimi e dolorosi scorci di amore in tempo di guerra; il soldato morente dice a un suo sottoposto:
There is no decent place to stand/In a massacre/But if a woman take your hand/Go and stand with her/I left a wife in Tennessee/And a baby in Saigon”
Giungiamo ai giorni nostrissimi con un gruppo che ha convinto molto pubblico e molta critica col loro quarto album, del 2007, Boxer. Si tratta dei The National, un quintetto dell’Ohio che suona un indie rock di difficile definizione; di sicuro si distingue per il timbro baritonale del cantante che fa tanto Ian Curtis. Una definizione estemporanea potrebbe essere questa: i National sono degli Interpol dai suoni levigati, con un batterista che fa il lavoro di tre strumenti e un cantante che più che i Joy Division ricorda Bruce Springsteen. Ma venendo alla canzone, Start a War si delinea semplicemente come una invettiva composta e rassegnata rivolta alla compagna/o d’amore con cui le asperità sono al massimo. Anzi, ormai la separazione sta per verificarsi. Il concetto è quello di un “va’, va’ pure, farai scoppiare una guerra, ma io avrò soldi, io mi divertirò ancora”.
Per fermare questo viaggio piuttosto incoerente fra guerra e amore, chiudiamo con la scoppiettante prosaicità ironica di Robert Gawlinski, notorio rocker polacco.

I want to kill you, girl
And slice you with an axe
I want to kill you girl
Because I drink too much

For your tears
My sleepless nights
Your evil love
For your body
Which i never
Had enough

I'll kill you with an axe
[…]
For your empty eyes
Which always greeted me
And for silent sex in a toilet
For your scream

Everyday...
War and Love

Filippo Batisti

domenica 21 dicembre 2008

Omero and the Bad Seeds

Omero and the Bad Seeds
L'Odissea nel roccherolle


Non mi dilungherò a iniziarvi alla figura di Nick Cave, vi basti sapere che iniziò a fare punk-rock noise paranoide negli anni '80 con i Birthday Party nella natia Australia. Insieme a Blixa Bargeld (fra le menti dei maestri del noise tedesco Einsturzende Neubauten) formò i Bad Seeds, con i quali proseguirà il genere, fino ad arrivare al 1990 con The Good Son dove il suono si fa sinfonico mentre il concetto rimane apocalittico e fatalista. Cave, grosso tossicodipendente, si cura e passa gli anni '90 fra ballate di pianoforte e un rock tutto sommato più canonico ma mai lindo. Cave e i Bad Seeds si reinterpretano gloriosamente nel film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino, nel periodo di From Her to Eternity. Brano al confronto del quale il doppio album Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus del 2004 riesce una camomilla. Tre anni dopo Nick si fa crescere due baffi francamente imbarazzanti e insieme a Warren Ellis (il violin-ex-machina dei Dirty Three...ma quante ce ne sarebbero da dire!) si dà a un punk più libero e brainless (cf. No Pussy Blues), sotto il nome di Grinderman. Infine, questa primavera, con tutti i Bad Seeds fa uscire -sempre coi baffi- Dig!!!, Lazarus, Dig!!!, una raccolta di rock asciutti pieni di rumori con un paio di canzoni veramente valide: l'ultima traccia è quella di oggi, More News From Nowhere, canzone che dura 7.58 poco densi e piuttosto uguali fra loro.



Un eco di chitarra distorta si fa sentire lontano dall'inizio , a memoria di che cosa si stia cercando. Il cantato è nel pieno stile dell'ultimo Cave, versi a metà delle battute, come fossero costantemente interpretati da un attore sulla scena -non a caso Cave ha sempre avuto molto di teatrale in quasi tutti i suoi aspetti, nella retorica delle canzoni come nella sua figura di nuovo vero poeta maledetto- ma senza sfociare mai nel parlato, quindi senza mai abbandonare il filo della melodia.
More News from Nowhere è un canto di smarrimento e disagio regolarizzato, o per meglio dire, di una persona qualunque innalzata più o meno suo malgrado allo status di poeta per il fatto che si trova spaesato e in incommensurabile disagio nel mondo attorno. Non un ribelle romantico, non un anarchico punk, neanche una requisitoria da cantante folk à-la-Dylan, quasi più il Thom Yorke di No Surprises, ma con molta più vitalità e ironia. Potremmo dire un Odisseo che non si prende sul serio neanche per un momento, anzi, si ride un po' dietro da solo: alla mia età, ancora in giro a fare queste cose!
E non abbiamo parlato di Odisseo immotivatamente perché si dà il caso che More News From Nowhere sia infarcita di riferimenti piuttosto diretti all'Odissea e ad alcuni degli episodi più famosi di essa. Analizzeremo il più brevemente possibile le parole con particolare attenzione ai punti paralleli con l'opera di Omero.
Dopo una breve intro, la scena si apre con le scene di un party apocalittico dove la voce narrante inizia col vedere i suoi amici “in high places” e non sa cosa è cosa e chi è chi, “they've stolen each other's faces”. Questo non è un riferimento particolaei, se non uno dei sintomi dello smarrimento generale che impera kafkianamente per tutto il brano o, forzando un po', può rappresentare lo scarso feeling fra Odisseo e i suoi compagni che durante il poema ha causato più di un problema; dunque possiamo quasi dire che parliamo di Nick Cave senza i Bad Seeds!
Appare subito Janet, piena di piume di cuscino, conosciuta per “make dead groan/ in any kind of weather”. Cave striscia fino a lei e prova a impezzarla con una frase molto musicale come “you are the one/you are the sun/ and I'm your dutiful planet” che può suonare tanto intrigante quanto ridicola: difatti va male, perché con Janet questo tipo di cose non attacca, cause she has heard that shit before. Con una teatrale coblas capfinidas, dopo il ritornello che per ora tralasciamo, entra in scena Betty X, che “è uguale a Betty Y meno quel cromosoma fatale”. Ora, se Betty X è una donna avrà cromosomi XX, mentre Betty Y avrà XY e ciò significa che è un maschio. Meglio fermarsi a ciò che ci viene detto esplicitamente e lasciare a ognuno l'interpretazione. I capelli di Betty X sono come “the wine dark sea in which sailors come home”. Cave ci prova ancora, nel senso migliore del termine, “mi piego vicino alla sua gola:
<>”. Ma Betty non ci sta e ribadisce il fatto che la luce appartenga a lei, al che Cave respinto per la seconda volta viene travolto dal vento che soffiava nelle sue parole e rotola via per la stanza. Eccoci al primo riferimento! E' noto il passaggio del libro IX in cui Odisseo arriva all’isola Eolia, dove il re dei venti Eolo gli regala un otre in cui racchiude tutti i venti negativi e concede una brezza favorevole al ritorno. Purtroppo i compagni di Odisseo credono che si nasconda un tesoro e lo aprono scatenando una tempesta. Qui il parallelismo è decisamente vago, ma è un'ottima occasione per mettere in chiaro che questa canzone non è organica né sistematica rispetto all'Odissea. Si tratta di una canzone rock, non scordiamocelo. Tuttavia di seguito giunge il pezzo più fedele al poema e, credo, più divertente delle canzone. Cave vede questo tizio alto circa 100 piedi con un occhio solo che gli chiede l'autografo, al che il furbo Nick si firma “Nessuno”, si avvolge in un mantello di lana e lo accieca con la sua penna. L'episodio omerico è forse fra i più noti: sempre nel libro IX Odisseo e compagni sbarcano nella terra dei Ciclopi, dove vengono catturati in un antro da Polifemo, che divora un paio di compagni e comincia a parlare con Odisseo che dice di chiamarsi Nessuno (stratagemma che gli tornerà utile quando Polifemo chiedendo aiuto agli altri ciclopi griderà “Nessuno mi fa del male” verrà per questo deriso e lasciato al suo destino). Riuscirà a farlo ubriacare e ad accecarlo con un ramo infuocato e si salverà aggrappandosi al ventre di un ariete .
Nick comincia a sentirsi disturba', come diceva Renato Carosone, perché qualcuno deve aver messo qualcosa nel suo drink: tutti sembrano strani e “metà della persone si è trasformata in maiali che strillano e l'altra metà sta cucinando”. La prima parte cita senza dubbio al sortilegio compiuto dalla maga Circe che è invertito cronologicamente rispetto al secondo riferimento: la tempesta causata dall'apertura dell'otre dei venti aveva spedito la compagine greca nella terra dei Lestregoniani, giganti mangiatori uomini. Odisseo rimarrà poi un anno sull'isola di Eea a convivere con Circe: non esattamente “let me out of here”...
“And I saw Miss Polly singing with some girls/ I cried ” Le sirene che attirano promettendo conoscenza col loro canto hanno qui le sembianze di una certa Miss Polly, che, guardando il video della canzone si scoprirà essere la cantante Peaches Gedolf; Nick, da bravo, si fa legare all'albero maestro per ascoltare essendo costretto a resistere.
Per brevità tralasciamo le serate del nostro eroe insieme a una nuda “principessa nubiana” con cui, eufemisticamente, tracciò “la carta del movimento dei pianeti”; di seguito però dice che rimase “between her legs” per 7 anni, lo stesso tempo per cui Odisseo è stato ospite della ninfa Calipso sull'isola di Ogigia, bramando disperatamente il ritorno (“pining for my wife”) e, analogamente, si ritrova zuppo su una spiaggia: Odisseo verrà trovato da Nausicaa, mentre Cave trova tal Elena e i suoi occhi neri. Elena “si è fatta una trasfusione/ si è riempita di sangue di panda/ per evitare tutta la confusione”. Poiché poco dopo si parla di “psychotropic leaves“ il riferimento (in negativo) alla droga è sicuro.
Iactatus come Enea -si perdoni il flash latino- ha la visione di Deanna, che addita come causa degli orrori che gli sono capitati, ma di cui pare che non possa fare a meno, almeno da un punto di vista affettivo, dato che “mi strofino la faccia nel suo vestito/ molto dopo che se n’è andata”. L'ultima strofa cambia decisamente tono ed esplicita il messaggio concettuale della canzone: “And don't it make you feel so sad/ Don't the blood rush to your feet/ To think that everything you do today/ Tomorrow is obsolete/ Technology and women/ And little children too/ Don't it make you feel blue?”. Papale papale, è un mugugno allegro di disorientamento e disagio ammesso ma non concesso. Papale papale, è un mugugno allegro di disorientamento e disagio ammesso ma non concesso. Avevamo lasciato indietro fin ad adesso il ritornello, che credo faccia più effetto posto alla fine: “and don’t make you feel alone
Don't it make you wanna get right back home?”
E quali sarebbero queste “notizie provenienti da nessuna-parte”? Probabilmente è sempre questo circo di cazzate e showbusiness in cui Nick Cave si è trovato cinquantenne e naufrago.
Sempre ridendosela sotto I baffi, però.
Filippo Batisti
(un ringraziamento sentito alle prof Frascaroli e Cervellati!)

venerdì 21 novembre 2008

Campagna, southern women, politics, aria

Out of time è l'album che ha portato al successo intercontinentale un quartetto di contadin/nerd/visionari/profetineldeserto della Georgia, fra Florida e Louisiana, conosciutisi in una città che, come forse desideravano gli scarsamente fantasiosi padri fondatori secoli prima, era luogo di università e poco altro: Athens.

Nel 1988 gli R.E.M. dopo il loro quinto album per l'etichetta indipendente IRS (stesso acronimo dell'agenzia del Fisco americana), Document, firmano un grasso e sgocciolante contratto per la Warner: badilate di dineri in cambio di 5 album. Il primo è Green, a cui segue un tour più di un anno. Nel 1991 esce Out of Time, che vende vagonate di copie, grazie soprattutto alla canzone più universalmente famosa e che ancora li insegue (senza, a dir la verità, scorno da parte di nessuno, ché diversamente da altri gruppi, gli R.E.M. hanno prodotto molto e miglior materiale per non entrare nella sindrome che colpisce chi azzecca una stra-hit: rimanerne ossessionati e intrappolati carriera natural durante) Losing My Religion, che, va detto, significa 'perdere la pazienza'. Niente crisi mistiche, cispiace, anche se la metà dei brani di Stipe è una crisi mistica, più o meno autistica.

Radio Song parte con arpeggi di cielo e augelli che, dopo una dichiarazione come the world is collapsing around our ears che non va equivocata, si trasformano in un incrocio fra James Brown e David Byrne, reginetti del funky per le masse. Fra chitarre allegrissime e organetti della domenica il messaggio è qualcosa di lontano a noi del 2008: si dice che i Dj della radio siano dei manipolatori che mandano le solite canzoni tristi ed emozio-a-nali alla radio in sequenza per, hm, far sentire male la gente (elenco di canzoni a cui si iscriverà, l'anno dopo, Everybody Hurts, altro pilone per i profani degli R.E.M., cfr. Alex Kapranos). In questa canzone compare tale KRS-One, un rappettaro dalla voce profonda e rotonda che c'entra come un prete a una festa di addio al celibato, ma alla fin fine fa calce.

Adunque, subito, Losing My Religion e il suo mandolino, negli anni numerosamente impiegato da Peter Buck, ma qui probabilmente nella sua versione migliore, alla pari di quello in Electrolite, dove però è comprimario. Come ormai saprete, i testi di Michael Stipe sono, di base, criptici e, anzi, per i primi due album le canzoni avevano parole in maggior parte casuali, “perché nei locali dove suonavamo le attrezzature erano così scassate che uno avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa, non si capiva niente, allora sceglievo le parole per il suono che avevano”. Che se anche fosse una scusa, sarebbe una signora scusa, cari sbarbatielli. Ed è per questo che ogni canzone meriterebbe una pagina ciascuna, qui ci basti dire che l'immagine del tema generale è la chiusura in sé, o meglio, lo stare sulla soglia, contrastati all'interno.

Low segue, lenta, minimale, vagamente scolastica, ma a rileggere per bene il testo, segue i ritmi un amore andato male, a una persona con la stessa tempesta intracerebrale della canzone precedenza, ai limiti della patologia però. I skipped the part about love, declama il ritornello: una retrospettiva malata raccontata da soli ad alta voce, sopresi dal mattino ridendo, capelli bagnati e barba ruvida.
Near Wild Heaven comincia a riprendere il grande senso di agrestitudine che in Green era nato, in un duetto alla voce con Mike Mills, dove pare che non sian d'accordo su chi fa il primo, ma il terzo, ovvero noi, gode del risultato. Il ponte è ragguardevole, dove c'è il primo dei coretti “wussy” del disco, che procede col solito strumentale di -quasi- ogni disco dei REM: Endgame, di una gentilezza, di una cortesia, anche nel senso più etimologico del termine, immerso in un clima di miele da sembrar finto (scusatemi i pizzicati di violino!), come volutamente e polemicamente finto e burlesco -ma sempre con grazia- è quello di Shiny Happy People, citata anche nel documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11, nell'esatto spirito della canzone. Gold and silver shine, persone felici e splendenti si tengono per mano, evviva, tout va bien, cantano a turno Stipe, Mills e Kate Pierson, rossa cantantessa dei B52's. Il video merita di essere cercato: aranciata e cyclette per il vecchio nero. Obama se la ride, a proposito. [Errata corrige: ero veramente convinto che fosse un nero: in realtà non lo è! Era nera la ragazzina. Ma il concetto cambia di poco]

Belong è un grande (sì, grande!) capolavoro orrendamente misconosciuto, tanto che mi trovo anche in difficoltà a parlarne. Grandi cori monosillabici di liberazione, strofe sussurrate al megafono, schiocchi di dita, linee di basso impure, e un significato lirico emozio-politico di veramente molta rilevanza. Può anche essere visto come una romanticizzazione della caduta del Muro di Berlino.
Here's a scene: la canzone veramente più agreste e provinciale del mondo, ululato di un pastore errante nella notte della Georgia, accompagnato dalla luce del fuoco affianco, in una preghiera da macedonia di thymos, ben modulata per l'esterno, per un canto che non è solo d'amore: Half a World Away. Il ciclo emozionale si interrompe (ha! Beccatevi questo, djs!) con Texarkana, intreccio vocale Mills-Stipe che sarebbe stato meglio all'inizio dell'album, ancora una volta preponderante riff di basso. Texarkana è una città al confine fra Texas e Arkansas (che, president Bill docet, si pronunzia àrkanso).

La pausa è però ingannevole, poiché il pezzo seguente, un monumento di luna blu oltremare in una scadente prateria fatta di oggetti, elenchi, Bebelplatz dell'anima, arriva e si chiama Country Feedback, scandito da un quattroquarti che distrugge ogni speranza che l'ascoltatore abbia una scusa per far finta di niente e scamparla. Serie di immagini, ricordi, dolorosissimi postumi di una relazione iniziata non si sa come, ma finita tanto lentamente quanto male, dolore fisico e disillusione. It's crazy what you could have had. Si tratta della struttura chitarristica più imponente a livello emotivo di Peter Buck, che, udite udite, alla fine si concede perfino un assolo (che, come i non avvezzi avranno intuito, non è cosa usuale), tanto importante che la canzone stessa porta il titolo dell'effetto di chitarra usato durante di essa, pur lasciando l'ambiguità country/campagna e feedback/retroreazione (come il dizionario Sansoni dice). Il disco finisce però una cascata di d'aria buona: Me in Honey è una canzone in duetto con Kate Pierson, dotata di un riff semplice ed entusiasta. Si parla di paternità gioiosa, in risposta alla canzone dei B-52's, Eat for two, stesso argomento vista dall'altra parte.

Spet-ta-co-la-re versione di Country Feedback dal Dvd live Perfect Square. Se ne uscite indenni, bravi voi.

lunedì 10 novembre 2008

Four Tet- Rounds

[Repubblica(zione) di febbraio 2008]


Diario di otto giorni, due momenti e un nastro di seta rosa

Rounds.


Hands.

Un cuore un po' asistolico, o forse un carrello d'ovatta in galleria, a scelta: uno scoiattolo corre affannato intrappolato per le percussioni, a zampettate gentili. Acque e lapsus di foreste fanno strada a un claccippìo fra quei tronchi e le vostre mani- il tutto sempre a discrezione dell'uomo con la mano poco ferma sul nastro dello scorrimento. Tuffi e bacchette di legno chiaro, fino a un veloce allontanamento di visuale verticale verso l'alto fino a confondere tutti i materiali in una circolarità di passi e sguazzi.


She moves she.

Tacchi di piombo, thebends per tutti i me, al risveglio nel paesaggio ora secco. Addolcita, da un uomo con il fez vestito di righe, di sporco e di chiaro, avvicina con passo ortogonalmente perfetto nella sinuosità serpentesca essa donna. Irrompono terremoti interni, tendìne rigide e veloci a oscurare la vista, attacco. Ma è l'uomo in fez (chiedo scusa, aveva anche i baffi) che vi spiega che quei compensati intermittenti non sono altro che il passo di lei che agisce aritmicamente sul vostro dentro.

“No, me l'immaginavo con più datteri.”

“Ma chi? L'amore?”.


First thing.

Voce di globulo bianco in mano al DJ della piscina.


My angel rocks back and forth

Segheria industria, con la plastica si fanno i carillon: la vostra creatura alata preferita, capello etereo perfetto, salopette da operaio, luce a profusione coordina, avanti e indrè.

Ogni cosa ha il suo peccato sublime e piacevole: un sacchetto di angoscia riaffiora e anzi sottolinea, implacabile, il vostro angelo, peggio di un ragazzo con la tamburina. La melodia gira ciclicamente sulle rotaie fino a perdere senso e finire l'angoscia in una sillaba di luce.


Spirit fingers.

Isteria cerebrale, industriale circolo di pizzichi e stock. Il vostro anulare destro continua a battere insistito, mentre tutto il resto vi accade dentro, ma all'esterno. Fra pioggia di ghiaccio atermico e nervi fosforescenti si fa presto a fare confusione.


Unspoken.

Fiu, respira. Martellano, di là, lo so. Ma sono gentili, ora- non senti le farfalle che con rapidità e solidità d'orsi compongono una danza? Ordinata e acquosa come un ballo d'altri tempi, a testa bassa e grazia nelle mani, unite. Quando ti affacci si levano, dirette, fulminee solo nella forma, verso il cielo acromo dalla tanta luce e nuvola. Si allontanano, vedi, ma le figure che disegnano sono più marroni e rosa che altro. Giunge, fin qui!, e illumina un nascondiglio di vita, che spruzza disordinato fuori. Sciame di belati, coreografie di purezza e fango, tripudio virgiliano. Fin troppo, ci vuole un ulteriore cerchio aereo di raccoglimento, ti riporto dietro la tenda, piccolo.

Api più garbate, ora.


Chia.

Un africano fuori luogo come un centrotavola nello scaffale sbagliato.


As serious as your life.

Gran ricevimento alla tavola del maragià. Si sprecano le portate e le ballerine, i musicanti d'ogni parte del mondo, in un surround ante litteram. Offerte di pasci, tavole, e lo stesso sorriso che ciclico si ripresenta, ripetendo la stessa frase di viola garbato e rosa un po' shock.

I battiti di mani degli invitati invitati a tenere il tempo si confondono con baci e mascelle. La cassetta tende a incrinarsi, ma si ripete, pur attraverso catodicità non contemplate. Il maragià si fa sempre più grasso e isterico, fino a implodere del e sul suo stesso convito (se non altro spazzando via tutte le briciole).


And they all look broken hearted.

Un jazzista guidato dal trombo che porta nell'aorta, dà testate su testate a un muro di cuoio, che per tutta risposta gli fornisce un sottofondo di bassezza morale- garbata da fare il baciamano, però.

Arpeggia, insiste, sbrànghetebumbùm, fino a -momento!- giungere a un'aria finale epica e decadente al tempo insieme, come una cassetta di un vecchio film, bianchennero, inserita direttamente in un lettore Dvd: con gli errori e le perdite nel tragitto, gli aggiornamenti del caso, i loop a spirale, le memorie oculari e un crescendo nato dall'umano e morto nel divino.

Esita ancora più forte, e a metà fra l'autocommiserazione e la sacralità della forma, ripete, convinto che questo possa ammorbidire alcunché, polpastrelli sanguinanti.


Slow jam.

Tutto alla fine torna: una boccata fuori dal liquido amniotico digitale, una spruzzata di collutorio e confusioni auricolari, distesi, senza cognizione dei corpi, sul più morbido dei tappeti.

Ma questo non è amore di contemplazione, certo, è divino quanto questi xilofoni e interfoni suonati improvvisati e perfetti, ma è azione: è la tessera di Perec, è l'errore che ha fatto nascere l'universo, è l'imprevedibile fra la confusione del perfetto. E' un pupazzo di quelli di plastica da schiacciare, per l'apposito rumorino.

Su canoe in fiumi di cartapesta e the puro scorriamo controcorrente, ogni onda ci dice dove andare, ansiogene come un'indicazione così chiara da essere sbagliata. Si scende, l'acqua diventa nera o asciutta, a scelta dell'acquirente. I due mondi come hanno iniziato tornano a prendere coscienza l'uno dell'altro.


*

Rounds è un album, l'autore è Four Tet, meglio conosciuto presso gli impiegati dell'anagrafe di Londra come Keiran Hebden, come si nota dai piedi l'origine è iraniana. Fa musica elettronica, l'album è del 2003, questo è un breve scritto di getto, condensato di sensazioni che il disco in questione mi ha suggerito. (Tenete conto che sono sotto farmaci). La posologia per questo estratto è, ovviamente, di procurarsi perlomeno l'ascolto del disco in questione e leggere, confrontare con le proprie sensazioni e, se il sintomo persiste, rimanere estasiati.


Filippo Batisti (con la collaborazione del lansoprazolo)

martedì 28 ottobre 2008

gnè gnè.
pop porno.





Guardate più South Park e ascoltate:

Philip Glass - Glassworks
Adorable - Against Perfection
Apparat - Walls
Massimo Volume - Club Privè


byez.


(chiunque abbia messo quell'orrido coniglio sarà presto punito in nome della divina giustizia.)