Out of time è l'album che ha portato al successo intercontinentale un quartetto di contadin/nerd/visionari/profetineldeserto della Georgia, fra Florida e Louisiana, conosciutisi in una città che, come forse desideravano gli scarsamente fantasiosi padri fondatori secoli prima, era luogo di università e poco altro: Athens.
Nel 1988 gli R.E.M. dopo il loro quinto album per l'etichetta indipendente IRS (stesso acronimo dell'agenzia del Fisco americana), Document, firmano un grasso e sgocciolante contratto per la Warner: badilate di dineri in cambio di 5 album. Il primo è Green, a cui segue un tour più di un anno. Nel 1991 esce Out of Time, che vende vagonate di copie, grazie soprattutto alla canzone più universalmente famosa e che ancora li insegue (senza, a dir la verità, scorno da parte di nessuno, ché diversamente da altri gruppi, gli R.E.M. hanno prodotto molto e miglior materiale per non entrare nella sindrome che colpisce chi azzecca una stra-hit: rimanerne ossessionati e intrappolati carriera natural durante) Losing My Religion, che, va detto, significa 'perdere la pazienza'. Niente crisi mistiche, cispiace, anche se la metà dei brani di Stipe è una crisi mistica, più o meno autistica.
Radio Song parte con arpeggi di cielo e augelli che, dopo una dichiarazione come the world is collapsing around our ears che non va equivocata, si trasformano in un incrocio fra James Brown e David Byrne, reginetti del funky per le masse. Fra chitarre allegrissime e organetti della domenica il messaggio è qualcosa di lontano a noi del 2008: si dice che i Dj della radio siano dei manipolatori che mandano le solite canzoni tristi ed emozio-a-nali alla radio in sequenza per, hm, far sentire male la gente (elenco di canzoni a cui si iscriverà, l'anno dopo, Everybody Hurts, altro pilone per i profani degli R.E.M., cfr. Alex Kapranos). In questa canzone compare tale KRS-One, un rappettaro dalla voce profonda e rotonda che c'entra come un prete a una festa di addio al celibato, ma alla fin fine fa calce.
Adunque, subito, Losing My Religion e il suo mandolino, negli anni numerosamente impiegato da Peter Buck, ma qui probabilmente nella sua versione migliore, alla pari di quello in Electrolite, dove però è comprimario. Come ormai saprete, i testi di Michael Stipe sono, di base, criptici e, anzi, per i primi due album le canzoni avevano parole in maggior parte casuali, “perché nei locali dove suonavamo le attrezzature erano così scassate che uno avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa, non si capiva niente, allora sceglievo le parole per il suono che avevano”. Che se anche fosse una scusa, sarebbe una signora scusa, cari sbarbatielli. Ed è per questo che ogni canzone meriterebbe una pagina ciascuna, qui ci basti dire che l'immagine del tema generale è la chiusura in sé, o meglio, lo stare sulla soglia, contrastati all'interno.
Low segue, lenta, minimale, vagamente scolastica, ma a rileggere per bene il testo, segue i ritmi un amore andato male, a una persona con la stessa tempesta intracerebrale della canzone precedenza, ai limiti della patologia però. I skipped the part about love, declama il ritornello: una retrospettiva malata raccontata da soli ad alta voce, sopresi dal mattino ridendo, capelli bagnati e barba ruvida.
Near Wild Heaven comincia a riprendere il grande senso di agrestitudine che in Green era nato, in un duetto alla voce con Mike Mills, dove pare che non sian d'accordo su chi fa il primo, ma il terzo, ovvero noi, gode del risultato. Il ponte è ragguardevole, dove c'è il primo dei coretti “wussy” del disco, che procede col solito strumentale di -quasi- ogni disco dei REM: Endgame, di una gentilezza, di una cortesia, anche nel senso più etimologico del termine, immerso in un clima di miele da sembrar finto (scusatemi i pizzicati di violino!), come volutamente e polemicamente finto e burlesco -ma sempre con grazia- è quello di Shiny Happy People, citata anche nel documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11, nell'esatto spirito della canzone. Gold and silver shine, persone felici e splendenti si tengono per mano, evviva, tout va bien, cantano a turno Stipe, Mills e Kate Pierson, rossa cantantessa dei B52's. Il video merita di essere cercato: aranciata e cyclette per il vecchio nero. Obama se la ride, a proposito. [Errata corrige: ero veramente convinto che fosse un nero: in realtà non lo è! Era nera la ragazzina. Ma il concetto cambia di poco]
Belong è un grande (sì, grande!) capolavoro orrendamente misconosciuto, tanto che mi trovo anche in difficoltà a parlarne. Grandi cori monosillabici di liberazione, strofe sussurrate al megafono, schiocchi di dita, linee di basso impure, e un significato lirico emozio-politico di veramente molta rilevanza. Può anche essere visto come una romanticizzazione della caduta del Muro di Berlino.
Here's a scene: la canzone veramente più agreste e provinciale del mondo, ululato di un pastore errante nella notte della Georgia, accompagnato dalla luce del fuoco affianco, in una preghiera da macedonia di thymos, ben modulata per l'esterno, per un canto che non è solo d'amore: Half a World Away. Il ciclo emozionale si interrompe (ha! Beccatevi questo, djs!) con Texarkana, intreccio vocale Mills-Stipe che sarebbe stato meglio all'inizio dell'album, ancora una volta preponderante riff di basso. Texarkana è una città al confine fra Texas e Arkansas (che, president Bill docet, si pronunzia àrkanso).
La pausa è però ingannevole, poiché il pezzo seguente, un monumento di luna blu oltremare in una scadente prateria fatta di oggetti, elenchi, Bebelplatz dell'anima, arriva e si chiama Country Feedback, scandito da un quattroquarti che distrugge ogni speranza che l'ascoltatore abbia una scusa per far finta di niente e scamparla. Serie di immagini, ricordi, dolorosissimi postumi di una relazione iniziata non si sa come, ma finita tanto lentamente quanto male, dolore fisico e disillusione. It's crazy what you could have had. Si tratta della struttura chitarristica più imponente a livello emotivo di Peter Buck, che, udite udite, alla fine si concede perfino un assolo (che, come i non avvezzi avranno intuito, non è cosa usuale), tanto importante che la canzone stessa porta il titolo dell'effetto di chitarra usato durante di essa, pur lasciando l'ambiguità country/campagna e feedback/retroreazione (come il dizionario Sansoni dice). Il disco finisce però una cascata di d'aria buona: Me in Honey è una canzone in duetto con Kate Pierson, dotata di un riff semplice ed entusiasta. Si parla di paternità gioiosa, in risposta alla canzone dei B-52's, Eat for two, stesso argomento vista dall'altra parte.
Spet-ta-co-la-re versione di Country Feedback dal Dvd live Perfect Square. Se ne uscite indenni, bravi voi.
-CLAXON-
microwaves, la rubrica di musica
venerdì 21 novembre 2008
Campagna, southern women, politics, aria
Etichette:
agritour,
claxon,
Georges Perec,
microwaves,
Out of Time,
REM
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento