-CLAXON-
microwaves, la rubrica di musica
venerdì 21 novembre 2008
Campagna, southern women, politics, aria
Nel 1988 gli R.E.M. dopo il loro quinto album per l'etichetta indipendente IRS (stesso acronimo dell'agenzia del Fisco americana), Document, firmano un grasso e sgocciolante contratto per la Warner: badilate di dineri in cambio di 5 album. Il primo è Green, a cui segue un tour più di un anno. Nel 1991 esce Out of Time, che vende vagonate di copie, grazie soprattutto alla canzone più universalmente famosa e che ancora li insegue (senza, a dir la verità, scorno da parte di nessuno, ché diversamente da altri gruppi, gli R.E.M. hanno prodotto molto e miglior materiale per non entrare nella sindrome che colpisce chi azzecca una stra-hit: rimanerne ossessionati e intrappolati carriera natural durante) Losing My Religion, che, va detto, significa 'perdere la pazienza'. Niente crisi mistiche, cispiace, anche se la metà dei brani di Stipe è una crisi mistica, più o meno autistica.
Radio Song parte con arpeggi di cielo e augelli che, dopo una dichiarazione come the world is collapsing around our ears che non va equivocata, si trasformano in un incrocio fra James Brown e David Byrne, reginetti del funky per le masse. Fra chitarre allegrissime e organetti della domenica il messaggio è qualcosa di lontano a noi del 2008: si dice che i Dj della radio siano dei manipolatori che mandano le solite canzoni tristi ed emozio-a-nali alla radio in sequenza per, hm, far sentire male la gente (elenco di canzoni a cui si iscriverà, l'anno dopo, Everybody Hurts, altro pilone per i profani degli R.E.M., cfr. Alex Kapranos). In questa canzone compare tale KRS-One, un rappettaro dalla voce profonda e rotonda che c'entra come un prete a una festa di addio al celibato, ma alla fin fine fa calce.
Adunque, subito, Losing My Religion e il suo mandolino, negli anni numerosamente impiegato da Peter Buck, ma qui probabilmente nella sua versione migliore, alla pari di quello in Electrolite, dove però è comprimario. Come ormai saprete, i testi di Michael Stipe sono, di base, criptici e, anzi, per i primi due album le canzoni avevano parole in maggior parte casuali, “perché nei locali dove suonavamo le attrezzature erano così scassate che uno avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa, non si capiva niente, allora sceglievo le parole per il suono che avevano”. Che se anche fosse una scusa, sarebbe una signora scusa, cari sbarbatielli. Ed è per questo che ogni canzone meriterebbe una pagina ciascuna, qui ci basti dire che l'immagine del tema generale è la chiusura in sé, o meglio, lo stare sulla soglia, contrastati all'interno.
Low segue, lenta, minimale, vagamente scolastica, ma a rileggere per bene il testo, segue i ritmi un amore andato male, a una persona con la stessa tempesta intracerebrale della canzone precedenza, ai limiti della patologia però. I skipped the part about love, declama il ritornello: una retrospettiva malata raccontata da soli ad alta voce, sopresi dal mattino ridendo, capelli bagnati e barba ruvida.
Near Wild Heaven comincia a riprendere il grande senso di agrestitudine che in Green era nato, in un duetto alla voce con Mike Mills, dove pare che non sian d'accordo su chi fa il primo, ma il terzo, ovvero noi, gode del risultato. Il ponte è ragguardevole, dove c'è il primo dei coretti “wussy” del disco, che procede col solito strumentale di -quasi- ogni disco dei REM: Endgame, di una gentilezza, di una cortesia, anche nel senso più etimologico del termine, immerso in un clima di miele da sembrar finto (scusatemi i pizzicati di violino!), come volutamente e polemicamente finto e burlesco -ma sempre con grazia- è quello di Shiny Happy People, citata anche nel documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11, nell'esatto spirito della canzone. Gold and silver shine, persone felici e splendenti si tengono per mano, evviva, tout va bien, cantano a turno Stipe, Mills e Kate Pierson, rossa cantantessa dei B52's. Il video merita di essere cercato: aranciata e cyclette per il vecchio nero. Obama se la ride, a proposito. [Errata corrige: ero veramente convinto che fosse un nero: in realtà non lo è! Era nera la ragazzina. Ma il concetto cambia di poco]
Belong è un grande (sì, grande!) capolavoro orrendamente misconosciuto, tanto che mi trovo anche in difficoltà a parlarne. Grandi cori monosillabici di liberazione, strofe sussurrate al megafono, schiocchi di dita, linee di basso impure, e un significato lirico emozio-politico di veramente molta rilevanza. Può anche essere visto come una romanticizzazione della caduta del Muro di Berlino.
Here's a scene: la canzone veramente più agreste e provinciale del mondo, ululato di un pastore errante nella notte della Georgia, accompagnato dalla luce del fuoco affianco, in una preghiera da macedonia di thymos, ben modulata per l'esterno, per un canto che non è solo d'amore: Half a World Away. Il ciclo emozionale si interrompe (ha! Beccatevi questo, djs!) con Texarkana, intreccio vocale Mills-Stipe che sarebbe stato meglio all'inizio dell'album, ancora una volta preponderante riff di basso. Texarkana è una città al confine fra Texas e Arkansas (che, president Bill docet, si pronunzia àrkanso).
La pausa è però ingannevole, poiché il pezzo seguente, un monumento di luna blu oltremare in una scadente prateria fatta di oggetti, elenchi, Bebelplatz dell'anima, arriva e si chiama Country Feedback, scandito da un quattroquarti che distrugge ogni speranza che l'ascoltatore abbia una scusa per far finta di niente e scamparla. Serie di immagini, ricordi, dolorosissimi postumi di una relazione iniziata non si sa come, ma finita tanto lentamente quanto male, dolore fisico e disillusione. It's crazy what you could have had. Si tratta della struttura chitarristica più imponente a livello emotivo di Peter Buck, che, udite udite, alla fine si concede perfino un assolo (che, come i non avvezzi avranno intuito, non è cosa usuale), tanto importante che la canzone stessa porta il titolo dell'effetto di chitarra usato durante di essa, pur lasciando l'ambiguità country/campagna e feedback/retroreazione (come il dizionario Sansoni dice). Il disco finisce però una cascata di d'aria buona: Me in Honey è una canzone in duetto con Kate Pierson, dotata di un riff semplice ed entusiasta. Si parla di paternità gioiosa, in risposta alla canzone dei B-52's, Eat for two, stesso argomento vista dall'altra parte.
Spet-ta-co-la-re versione di Country Feedback dal Dvd live Perfect Square. Se ne uscite indenni, bravi voi.
lunedì 10 novembre 2008
Four Tet- Rounds
[Repubblica(zione) di febbraio 2008]
Diario di otto giorni, due momenti e un nastro di seta rosa
Rounds.
Hands.
Un cuore un po' asistolico, o forse un carrello d'ovatta in galleria, a scelta: uno scoiattolo corre affannato intrappolato per le percussioni, a zampettate gentili. Acque e lapsus di foreste fanno strada a un claccippìo fra quei tronchi e le vostre mani- il tutto sempre a discrezione dell'uomo con la mano poco ferma sul nastro dello scorrimento. Tuffi e bacchette di legno chiaro, fino a un veloce allontanamento di visuale verticale verso l'alto fino a confondere tutti i materiali in una circolarità di passi e sguazzi.
She moves she.
Tacchi di piombo, thebends per tutti i me, al risveglio nel paesaggio ora secco. Addolcita, da un uomo con il fez vestito di righe, di sporco e di chiaro, avvicina con passo ortogonalmente perfetto nella sinuosità serpentesca essa donna. Irrompono terremoti interni, tendìne rigide e veloci a oscurare la vista, attacco. Ma è l'uomo in fez (chiedo scusa, aveva anche i baffi) che vi spiega che quei compensati intermittenti non sono altro che il passo di lei che agisce aritmicamente sul vostro dentro.
“No, me l'immaginavo con più datteri.”
“Ma chi? L'amore?”.
First thing.
Voce di globulo bianco in mano al DJ della piscina.
My angel rocks back and forth
Segheria industria, con la plastica si fanno i carillon: la vostra creatura alata preferita, capello etereo perfetto, salopette da operaio, luce a profusione coordina, avanti e indrè.
Ogni cosa ha il suo peccato sublime e piacevole: un sacchetto di angoscia riaffiora e anzi sottolinea, implacabile, il vostro angelo, peggio di un ragazzo con la tamburina. La melodia gira ciclicamente sulle rotaie fino a perdere senso e finire l'angoscia in una sillaba di luce.
Spirit fingers.
Isteria cerebrale, industriale circolo di pizzichi e stock. Il vostro anulare destro continua a battere insistito, mentre tutto il resto vi accade dentro, ma all'esterno. Fra pioggia di ghiaccio atermico e nervi fosforescenti si fa presto a fare confusione.
Unspoken.
Fiu, respira. Martellano, di là, lo so. Ma sono gentili, ora- non senti le farfalle che con rapidità e solidità d'orsi compongono una danza? Ordinata e acquosa come un ballo d'altri tempi, a testa bassa e grazia nelle mani, unite. Quando ti affacci si levano, dirette, fulminee solo nella forma, verso il cielo acromo dalla tanta luce e nuvola. Si allontanano, vedi, ma le figure che disegnano sono più marroni e rosa che altro. Giunge, fin qui!, e illumina un nascondiglio di vita, che spruzza disordinato fuori. Sciame di belati, coreografie di purezza e fango, tripudio virgiliano. Fin troppo, ci vuole un ulteriore cerchio aereo di raccoglimento, ti riporto dietro la tenda, piccolo.
Api più garbate, ora.
Chia.
Un africano fuori luogo come un centrotavola nello scaffale sbagliato.
As serious as your life.
Gran ricevimento alla tavola del maragià. Si sprecano le portate e le ballerine, i musicanti d'ogni parte del mondo, in un surround ante litteram. Offerte di pasci, tavole, e lo stesso sorriso che ciclico si ripresenta, ripetendo la stessa frase di viola garbato e rosa un po' shock.
I battiti di mani degli invitati invitati a tenere il tempo si confondono con baci e mascelle. La cassetta tende a incrinarsi, ma si ripete, pur attraverso catodicità non contemplate. Il maragià si fa sempre più grasso e isterico, fino a implodere del e sul suo stesso convito (se non altro spazzando via tutte le briciole).
And they all look broken hearted.
Un jazzista guidato dal trombo che porta nell'aorta, dà testate su testate a un muro di cuoio, che per tutta risposta gli fornisce un sottofondo di bassezza morale- garbata da fare il baciamano, però.
Arpeggia, insiste, sbrànghetebumbùm, fino a -momento!- giungere a un'aria finale epica e decadente al tempo insieme, come una cassetta di un vecchio film, bianchennero, inserita direttamente in un lettore Dvd: con gli errori e le perdite nel tragitto, gli aggiornamenti del caso, i loop a spirale, le memorie oculari e un crescendo nato dall'umano e morto nel divino.
Esita ancora più forte, e a metà fra l'autocommiserazione e la sacralità della forma, ripete, convinto che questo possa ammorbidire alcunché, polpastrelli sanguinanti.
Slow jam.
Tutto alla fine torna: una boccata fuori dal liquido amniotico digitale, una spruzzata di collutorio e confusioni auricolari, distesi, senza cognizione dei corpi, sul più morbido dei tappeti.
Ma questo non è amore di contemplazione, certo, è divino quanto questi xilofoni e interfoni suonati improvvisati e perfetti, ma è azione: è la tessera di Perec, è l'errore che ha fatto nascere l'universo, è l'imprevedibile fra la confusione del perfetto. E' un pupazzo di quelli di plastica da schiacciare, per l'apposito rumorino.
Su canoe in fiumi di cartapesta e the puro scorriamo controcorrente, ogni onda ci dice dove andare, ansiogene come un'indicazione così chiara da essere sbagliata. Si scende, l'acqua diventa nera o asciutta, a scelta dell'acquirente. I due mondi come hanno iniziato tornano a prendere coscienza l'uno dell'altro.
*
Rounds è un album, l'autore è Four Tet, meglio conosciuto presso gli impiegati dell'anagrafe di Londra come Keiran Hebden, come si nota dai piedi l'origine è iraniana. Fa musica elettronica, l'album è del 2003, questo è un breve scritto di getto, condensato di sensazioni che il disco in questione mi ha suggerito. (Tenete conto che sono sotto farmaci). La posologia per questo estratto è, ovviamente, di procurarsi perlomeno l'ascolto del disco in questione e leggere, confrontare con le proprie sensazioni e, se il sintomo persiste, rimanere estasiati.
Filippo Batisti (con la collaborazione del lansoprazolo)